MARCO AMBRA: Teste e Colli. Articolo di Fabio MILAZZO
19 maggio 2015 - Blog / Formazione popolare
(articolo pubblicato su Carmilla: letteratura, immaginario e cultura d’opposizione)
Marco Ambra (a cura di), Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola, collana gli ebook de «Il lavoro culturale», 2015.
Qual è il genere letterario all’altezza di una riforma della scuola che a priori si auto-identifica come #buona e che viene presentata e illustrata attraverso slides? Come analizzare la scuola di un Paese in cui un sottosegretario all’istruzione descrive i suoi docenti, in particolare quelli che si occupano di una funzione gravosa e delicata come il sostegno agli alunni con «Bisogni educativi speciali», come dei furbetti che fanno uso di una «scorciatoia “per passare di ruolo”»? (1) Attraverso quello che Marco Ambra, insegnante di Storia e Filosofia, con specializzazione nel sostegno, redattore del blog lavoroculturale.org, definisce «un lavoro eterogeneo, […] che si dibatte fra non-fiction creativa, saggio di approfondimento, caustica invettiva, articolo giornalistico, intervista e glossario» (p.5). Insomma, quello che Wu Ming 1 identificherebbe come: «Un oggetto letterario del quinto tipo» (p.5).
Ed è proprio ciò che rappresenta l’ebook collettivo Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola (2), un progetto editoriale de «il lavoro culturale» che prova – e secondo noi riesce con successo – a cartografare i territori e gli spazi in cui si dibatte la scuola ai tempi dello «Storytelling» (3). Un ebook che fa fino in fondo i conti con la complessità dell’oggetto scuola, che non è soltanto la principale agenzia formativa dello Stato (almeno quella cui è affidato essenzialmente il compito di formare la cittadinanza-democratica del domani), ma che è anche un artefatto simbolico-immaginario attraversato da flussi di desiderio, proiezioni emotive, sollecitazioni affettive, e bersaglio dei più diffusi luoghi-comuni partoriti dalla collettività. Di questa scuola se ne parla tanto, in alcuni casi strategicamente, come avviene da parte delle governance, in altri semplicemente sulla base di credenze irriflesse e di retoriche non-argomentate che fanno leva su una serie di stereotipi e luoghi comuni molto lontani dalla realtà delle cose. Teste e colli si situa in questo orizzonte per decostruire – compito necessario come pochi altri – quella retorica che Roberto Sandrucci, in un saggio molto interessante di qualche tempo fa, descrive come «La scuola sotto il genere della commedia» (4), una rappresentazione tragicomica di una realtà molto complessa catturata nei suoi aspetti ridicoli, disfunzionali e paradossali. Questa scuola, di cui si ride e ci si lamenta, descritta come un paradiso per fannulloni con tre mesi di vacanze all’anno, è in realtà un orizzonte complesso di contraddizioni – come la società di cui è lo specchio- che elude ogni facile rappresentazione, ogni tentativo di cattura attraverso narrazioni qualunquiste che mostrano incidentalmente il loro aspetto osceno di espressioni tipiche di una collettività che fa fatica ad elaborare ragionamenti e discorsi articolati, argomentati e supportati da dati che non siano elementari riduzioni nevrotiche e distorsioni prospettiche.
Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola prende posto in quest’orizzonte problematico, aggravato da una politica che ha fatto del decisionismo a tutti i costi l’antidoto contro l’accusa dell’immobilità della casta, la via privilegiata per poter dimostrare oggettivamente i progressi sbandierati sui social network con cadenza giornaliera. Come precisato nella presentazione sulla pagina de «Il Lavoro culturale», l’ebook «non è un saggio o una raccolta di saggi, ma interviste, glossari, saggi e narrazioni autobiografiche sul mondo della scuola», un insieme eterogeneo di sguardi che fa i conti con una realtà multiforme riuscendo ad evitare il pericolo della rappresentazioni unitaria, da coro di parrocchia. Il titolo dell’ebook «si richiama alla provocatoria immagine evocata dal filosofo Michel Serres per descrivere i ragazzi e le ragazze del XXI secolo: non più teste piene di nozioni o teste ben fatte, ma agili tronconi di teste aperte al vento di informazioni della Rete» (5). Teste, vien da dire, che si vorrebbero in grado di un pensiero all’altezza dei tempi, dei suoi smarcamenti e dei suoi paradossi ma, soprattutto, teste in grado di disinnescare quella nuova «ragione del mondo» che secondo Dardot e Laval è la posta in gioco di un ordine politico che mira ad «assicurare la sovranità del consumatore» (6). In tale ottica è il mercato che assume il valore di criterio per organizzare e giudicare le politiche di governo che rispondono innanzitutto alla dialettica posta in essere dalla legge della domanda e dell’offerta. «Nel caso della scuola questo significa innanzitutto procedure di razionalizzazione della spesa, mascherate attraverso i voli pindarici della retorica come quella messa in campo dal ministro Gelmini nel tentativo di obliare i colpi di machete inferti al bilancio della scuola (pubblica) durante il suo ministero» (7). Di questo si occupa la prima parte dell’ebook che è una serrata e acuta critica su quarant’anni di politica di smantellamento dei diritti sociali e delle conquiste del «meglio prodotto dalla scuola repubblicana dagli anni Sessanta agli anni Novanta del secolo scorso» (p.6). Quella scuola che, nel bene e nel male, aveva come obiettivo l’educazione alla cittadinanza costituzionale, all’esercizio, cioè, delle necessarie competenze per unapartecipazione politica attiva sulla base della Costituzione, garanzia di pluralità e di mediazione tra le diverse istanze antifasciste che l’hanno posta in essere. A questi obiettivi si sono sostituiti quelli del dettato neoliberista: «valutazione, meritocrazia e dialettica delle competenze» (p.6). Quest’ultime, però, da leggersi alla luce del «principio di prestazione, l’abbattimento degli ostacoli e la massimizzazione dello sforzo cognitivo», come sostiene Marco Ambra nel suo saggio «Una brutale assenza di cura: contro la scuola del naufragio e della prestazione».
Proprio la didattica per competenze, ratificata attraverso il Decreto ministeriale n.9 del gennaio 2010, ci consente di comprendere l’essenza del governo nella modernità e il ruolo svolto dalla scuola in vista dell’edificazione di un certo tipo di individuo: l’uomo-economico. Il neo-liberismo lo pone al centro del suo progetto di trasformazione della società da raggiungere attraverso condizioni giuridiche, sociali e politiche idonee alla costruzione di una società di mercato in cui gli individui operano per massimizzare il loro interesse in un clima di guerra permanente al fine di acquisire quelle che vengono percepite come «risorse rare». In relazione a ciò il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000, in cui si sono gettate le linee guida per l’istruzione del primo ventennio del nuovo secolo, ha evidenziato la necessità di un maggiore coordinamento per le politiche scolastiche in Europa che non dovrà essere più «fondata su saperi da trasmettere in blocco ai discenti, ma sullo sviluppo e l’incremento di competenze, intese come capacità di mobilitare risorse interne di vario tipo – cognitive, affettive, motivazionali – in relazione ai sempre nuovi e mutevoli contesti» (8). Ambra definisce ciò una «deriva ipercognitivista, votata non più a raddrizzare le viti storte, ad aggiustare le teste difformi, ma a programmare teste ben fatte di contenuti funzionali al contesto economico-produttivo» (p. 18). Questo perché «il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi» (9)
Il modello di riferimento è l’impresa e la logica è quella di mercato che celebra la concorrenza spietata e la competenza degli attori in campo di re-inventarsi continuamente (flessibilità) per massimizzare gli utili possibili. In tutto ciò, contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata, lo Stato non arretra per cedere il posto a quella categoria metafisica che è il mercato ma opera per predisporre le condizioni trascendentali affinché la «società di mercato» si realizzi effettivamente. Ecco che la scuola assume una funzione centrale nel «progetto ideologico di addomesticamento dei giovani in relazione a una certa idea, a un certo modello di società» (10).
La scuola, per la società neo-liberista, svolge la duplice funzione di spazio di soggettivazione e di fabbrica dei saperi e ogni riforma che la interessa, attraverso la determinazione delle condizioni di esercizio della vita scolastica, ha un valore performativo in relazione all’affermazione della logica di mercato: controllarne i programmi, amministrarne le linee guida, scandirne i tempi e gli spazi, le attività,Marco Ambra (a cura di), Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola, collana gli ebook de «Il lavoro culturale», 2015.
Qual è il genere letterario all’altezza di una riforma della scuola che a priori si auto-identifica come #buona e che viene presentata e illustrata attraverso slides? Come analizzare la scuola di un Paese in cui un sottosegretario all’istruzione descrive i suoi docenti, in particolare quelli che si occupano di una funzione gravosa e delicata come il sostegno agli alunni con «Bisogni educativi speciali», come dei furbetti che fanno uso di una «scorciatoia “per passare di ruolo”»? (1) Attraverso quello che Marco Ambra, insegnante di Storia e Filosofia, con specializzazione nel sostegno, redattore del blog lavoroculturale.org, definisce «un lavoro eterogeneo, […] che si dibatte fra non-fiction creativa, saggio di approfondimento, caustica invettiva, articolo giornalistico, intervista e glossario» (p.5). Insomma, quello che Wu Ming 1 identificherebbe come: «Un oggetto letterario del quinto tipo» (p.5).
Ed è proprio ciò che rappresenta l’ebook collettivo Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola (2), un progetto editoriale de «il lavoro culturale» che prova – e secondo noi riesce con successo – a cartografare i territori e gli spazi in cui si dibatte la scuola ai tempi dello «Storytelling» (3). Un ebook che fa fino in fondo i conti con la complessità dell’oggetto scuola, che non è soltanto la principale agenzia formativa dello Stato (almeno quella cui è affidato essenzialmente il compito di formare la cittadinanza-democratica del domani), ma che è anche un artefatto simbolico-immaginario attraversato da flussi di desiderio, proiezioni emotive, sollecitazioni affettive, e bersaglio dei più diffusi luoghi-comuni partoriti dalla collettività. Di questa scuola se ne parla tanto, in alcuni casi strategicamente, come avviene da parte delle governance, in altri semplicemente sulla base di credenze irriflesse e di retoriche non-argomentate che fanno leva su una serie di stereotipi e luoghi comuni molto lontani dalla realtà delle cose. Teste e colli si situa in questo orizzonte per decostruire – compito necessario come pochi altri – quella retorica che Roberto Sandrucci, in un saggio molto interessante di qualche tempo fa, descrive come «La scuola sotto il genere della commedia» (4), una rappresentazione tragicomica di una realtà molto complessa catturata nei suoi aspetti ridicoli, disfunzionali e paradossali. Questa scuola, di cui si ride e ci si lamenta, descritta come un paradiso per fannulloni con tre mesi di vacanze all’anno, è in realtà un orizzonte complesso di contraddizioni – come la società di cui è lo specchio- che elude ogni facile rappresentazione, ogni tentativo di cattura attraverso narrazioni qualunquiste che mostrano incidentalmente il loro aspetto osceno di espressioni tipiche di una collettività che fa fatica ad elaborare ragionamenti e discorsi articolati, argomentati e supportati da dati che non siano elementari riduzioni nevrotiche e distorsioni prospettiche.
Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola prende posto in quest’orizzonte problematico, aggravato da una politica che ha fatto del decisionismo a tutti i costi l’antidoto contro l’accusa dell’immobilità della casta, la via privilegiata per poter dimostrare oggettivamente i progressi sbandierati sui social network con cadenza giornaliera. Come precisato nella presentazione sulla pagina de «Il Lavoro culturale», l’ebook «non è un saggio o una raccolta di saggi, ma interviste, glossari, saggi e narrazioni autobiografiche sul mondo della scuola», un insieme eterogeneo di sguardi che fa i conti con una realtà multiforme riuscendo ad evitare il pericolo della rappresentazioni unitaria, da coro di parrocchia. Il titolo dell’ebook «si richiama alla provocatoria immagine evocata dal filosofo Michel Serres per descrivere i ragazzi e le ragazze del XXI secolo: non più teste piene di nozioni o teste ben fatte, ma agili tronconi di teste aperte al vento di informazioni della Rete» (5). Teste, vien da dire, che si vorrebbero in grado di un pensiero all’altezza dei tempi, dei suoi smarcamenti e dei suoi paradossi ma, soprattutto, teste in grado di disinnescare quella nuova «ragione del mondo» che secondo Dardot e Laval è la posta in gioco di un ordine politico che mira ad «assicurare la sovranità del consumatore» (6). In tale ottica è il mercato che assume il valore di criterio per organizzare e giudicare le politiche di governo che rispondono innanzitutto alla dialettica posta in essere dalla legge della domanda e dell’offerta. «Nel caso della scuola questo significa innanzitutto procedure di razionalizzazione della spesa, mascherate attraverso i voli pindarici della retorica come quella messa in campo dal ministro Gelmini nel tentativo di obliare i colpi di machete inferti al bilancio della scuola (pubblica) durante il suo ministero» (7). Di questo si occupa la prima parte dell’ebook che è una serrata e acuta critica su quarant’anni di politica di smantellamento dei diritti sociali e delle conquiste del «meglio prodotto dalla scuola repubblicana dagli anni Sessanta agli anni Novanta del secolo scorso» (p.6). Quella scuola che, nel bene e nel male, aveva come obiettivo l’educazione alla cittadinanza costituzionale, all’esercizio, cioè, delle necessarie competenze per unapartecipazione politica attiva sulla base della Costituzione, garanzia di pluralità e di mediazione tra le diverse istanze antifasciste che l’hanno posta in essere. A questi obiettivi si sono sostituiti quelli del dettato neoliberista: «valutazione, meritocrazia e dialettica delle competenze» (p.6). Quest’ultime, però, da leggersi alla luce del «principio di prestazione, l’abbattimento degli ostacoli e la massimizzazione dello sforzo cognitivo», come sostiene Marco Ambra nel suo saggio «Una brutale assenza di cura: contro la scuola del naufragio e della prestazione».
Proprio la didattica per competenze, ratificata attraverso il Decreto ministeriale n.9 del gennaio 2010, ci consente di comprendere l’essenza del governo nella modernità e il ruolo svolto dalla scuola in vista dell’edificazione di un certo tipo di individuo: l’uomo-economico. Il neo-liberismo lo pone al centro del suo progetto di trasformazione della società da raggiungere attraverso condizioni giuridiche, sociali e politiche idonee alla costruzione di una società di mercato in cui gli individui operano per massimizzare il loro interesse in un clima di guerra permanente al fine di acquisire quelle che vengono percepite come «risorse rare». In relazione a ciò il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000, in cui si sono gettate le linee guida per l’istruzione del primo ventennio del nuovo secolo, ha evidenziato la necessità di un maggiore coordinamento per le politiche scolastiche in Europa che non dovrà essere più «fondata su saperi da trasmettere in blocco ai discenti, ma sullo sviluppo e l’incremento di competenze, intese come capacità di mobilitare risorse interne di vario tipo – cognitive, affettive, motivazionali – in relazione ai sempre nuovi e mutevoli contesti» (8). Ambra definisce ciò una «deriva ipercognitivista, votata non più a raddrizzare le viti storte, ad aggiustare le teste difformi, ma a programmare teste ben fatte di contenuti funzionali al contesto economico-produttivo» (p. 18). Questo perché «il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi» (9)
Il modello di riferimento è l’impresa e la logica è quella di mercato che celebra la concorrenza spietata e la competenza degli attori in campo di re-inventarsi continuamente (flessibilità) per massimizzare gli utili possibili. In tutto ciò, contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata, lo Stato non arretra per cedere il posto a quella categoria metafisica che è il mercato ma opera per predisporre le condizioni trascendentali affinché la «società di mercato» si realizzi effettivamente. Ecco che la scuola assume una funzione centrale nel «progetto ideologico di addomesticamento dei giovani in relazione a una certa idea, a un certo modello di società» (10).
La scuola, per la società neo-liberista, svolge la duplice funzione di spazio di soggettivazione e di fabbrica dei saperi e ogni riforma che la interessa, attraverso la determinazione delle condizioni di esercizio della vita scolastica, ha un valore performativo in relazione all’affermazione della logica di mercato: controllarne i programmi, amministrarne le linee guida, scandirne i tempi e gli spazi, le attività, regolarne la dimensione comunitaria e di cittadinanza, selezionarne il personale, è di fondamentale importanza per costruire una società delle competenze, cioè una collettività di individui educati secondo l’«idolatria della flessibilità» (11)che prevede di adeguarsi appieno alle richieste dell’imprevedibile sistema economico e della “società della conoscenza”» (12). Flessibili e ignoranti, insomma i candidati ideali per essere allevati come «bravi consumatori e cittadini obbedienti» (13). Da qui una didattica pensata secondo il verbo del cognitivismo, che riduce la scuola a una fabbrica di competenze misurabili e quantificabili, uno spazio che esalta la normalizzazione e riduce le differenze in nome dell’omologazione e dell’adattamento ad un «ambiente in cui per vincere la partita, le regole del gioco devono essere trasformate, in cui bisogna mobilitare tutte le risorse a disposizione» (p.21). D’altra parte – come sostiene Roberto Ciccarelli nel suo saggio, Bestiario di una vita meritocratica dietro la cattedra – «Valutazione, merito, portfolio e patente» (p. 34) sono gli elementi presunti di una retorica che vuol far credere che i problemi della scuola non-meritocratica si risolvano sotto la guida illuminata del preside-manager, una sorta di nuovo principe feudale garante, responsabile e anche escatologicamente necessario per rilanciare la #Buona scuola attraverso la scelta – quanto arbitraria? – della sua “squadra”, ottenuta individuando e selezionando i docenti ritenuti più adatti a realizzare i piani dell’offerta formativa (POF), questi ultimi stabiliti e ricalibrati con decorrenza triennale. Questa sorta di corte dei miracoli, insieme alla valutazione per merito dei docenti, all’assunzione di tutti i precari e alla «applicazione delle nuove tecnologie» per controllare il lavoro dei docenti (p.41), costituisce l’architrave della «Buona scuola», il patto educativo attraverso cui il primo Ministro Renzi dovrebbe rilanciare la scuola italiana allineandola a quelle che hanno già nel mercato l’unico riferimento veritativo (p.47). Roberto Ciccarelli mostra non soltanto la retorica oscena che supporta il disegno nel suo insieme, ma anche la problematicità di un dispositivo pensato più per suggestionare che per dare risposte concrete ai problemi che affliggono il sistema educativo italiano.
L’aspetto osceno di questa scuola che deve essere valutata -e potenzialmente punita (14) – da una qualche agenzia ministeriale pensata per celebrare il dogma meritocratico – l’ANVUR docet-, è «l’irruzione di una “società dell’ignoranza”, che ha nei media radio televisivi le proprie agenzie educative, che fa fatica a individuare i criteri di costruzione di una memoria condivisa e con ciò a decifrare il proprio futuro» (p.20). Questo perché non basta avere accesso ad un tablet, o alle più svariate risorse digitali per «additare un futuro idillio tecnologico tale da sostituire una scuola multi-problematica» (p. 78), mentre si fa di tutto per disincentivare «la capacità di svolgere ragionamenti complessi» (p.79). Come sostiene Enrico Manera nel suo contributo (15): «la Buona scuola risente […] di un’eccessiva fiducia nell’idea che i “nativi digitali” siano un veicolo di innovazione spontanea, portatori per così dire di un contagio che, se accolto e favorito, invaderà progressivamente la scuola e poi la stessa società modernizzandola dal basso» (p.79). Quanto la credenza di un miracolo digitale in grado di risollevare le sorti della scuola italiana sia problematica e ingiustificata viene dimostrato ormai da numerose ricerche attuali (16), ma anche –incidentalmente- da una politica didattica schizofrenica in cui si celebra l’incomprensibile assenza di insegnamenti volti a rafforzare «le competenze di valutazione delle fonti» (p. 79), in particolare per quello che riguarda la navigazione in rete, adottata da molti studenti nel suo insieme come uno spazio di verità assoluta: “c’è scritto su internet” è la formula che sempre più spesso ci si sente rivolgere da alunni convinti e incapaci di discernere una “bufala” da un dato intersoggettivamente verificabile. Più in generale si registra che «i saperi mediati dal sistema di istruzione sono costantemente delegittimati dalla totale oggettivazione dei loro contenuti nella rete» (pp.26-27), diventata a tutti gli effetti unico e dogmatico criterio di veridizione per la società del «colonialismo digitale», la bella definizione di Roberto Casati, autore di un necessario «Glossario ragionato per affrontare la migrazione digitale» (pp. 108-129) e di un’intervista in cui sviluppa e problematizza i temi del suo recente e discusso libro: «Contro il colonialismo digitale». Casati, superando le secche costituite dalla logora alternativa tra apocalittici e integrati, analizza i cambiamenti in atto nella storia culturale della letto-scrittura e la sua correlazione con l’educazione e l’insegnamento. Egli mostra, inoltre, la problematica influenza di «terminali di catene di distribuzione» (p. 94) che rientrano in politiche aziendali e in strategie di mercato che non sono neutre ma hanno dei fini ben precisi che a tratti si palesano come nel caso delle «inserzioni pubblicitarie» (p.95) di cui i dispositivi sono veicolo. «Il problema dell’introduzione di terminali di catene di distribuzione in classe deve allora interessare dirigenti, amministratori scolastici e tutti coloro che prendono decisioni su questa materia. Perché la loro (nota bene: dei dispositivi) richiesta di attenzione è costante e interstiziale, interferisce con i ritmi dell’apprendimento» (p. 95) e, in una certa misura, ne dispone le condizioni di possibilità. Nessun luddismo digitale ma gli autori che scrivono nella seconda parte dell’ebook hanno ben presenti queste e altre questioni che rendono i dispositivi digitali degli elementi con effetti performativi in grado di rimodulare non soltanto gli orizzonti di studio e fruizione delle informazioni ma più in generale lo stesso spazio di apprendimento. Casati scrive di un necessario «negoziato» che deve esserci tra studenti e docenti al fine di valutare la legittimità dell’utilizzo di un dispositivo che non deve essere rigettato in nome di una battaglia di retroguardia assolutamente inutile, ma neanche accettato a-criticamente in nome di un dogma indimostrato: quello del presunto valore aggiunto legato all’utilizzo dello strumento. Questa dell’utilizzo consapevole è anche la posizione degli altri autori presenti nella seconda parte che «fra scetticismo, pragmatismo ed etica della responsabilità […] cercano la via a un uso consapevole dei dispositivi digitali nella scuola» (p. 7).
La terza parte dell’ebook è dedicata a due interviste con Luca Serianni e Tullio De Mauro. Da punti di vista diversi, ma con pari attenzione e lucidità, mostrano quanto un elemento che tutte le retoriche sul rilancio della scuola sembrano mettere al centro dell’attenzione – la lingua italiana- sia in verità uno spazio sempre più attaccato e logorato trasversalmente attraverso politiche di corto respiro che sembrano avere in mente soltanto il dogma del rilancio del Pil e l’affermazione di una ratio economica il cui imperativo è la quantificazione e la standardizzazione delle procedure educative e dei criteri di valutazione: gli alunni devono poter dimostrare oggettivamente di aver appreso le nozioni necessarie per riciclarsi nel mercato del lavoro. Con quali ricadute per l’intelligenza poetica, l’abilità creativa e il pensiero critico, lo lasciamo immaginare ai nostri lettori. Luca Serianni sostiene che la lingua italiana, la sua padronanza,mette in gioco non soltanto l’ortografia e la sintassi, ma anche le capacità critiche necessarie per comprendere ciò che si legge e per rielaborarle in un discorso argomentato. Egli che, diversamente da tanti suoi colleghi, non figura tra i critici radicali degli Invalsi, afferma che «i test Invalsi non sono utili per la letteratura, ma per misurare la comprensione di un testo» (p.155), riconosce così loro un valore in relazione alla competenza di decifrazione di un testo ma aggiunge che
«i rischi sono due: quello di pensare che il sistema di test possa esaurire il complesso compito della valutazione; e quello, molto grave anche per le materie scientifiche, che porta a riorientare l’insegnamento in vista della prova di test, con un paradossale ribaltamento tra mezzo e fine. Il fine – ricordiamolo – è quello di raggiungere la padronanza in un certo ambito (la lingua italiana o la fisica); il mezzo, o meglio uno dei mezzi, può essere il test per accertare un certo livello di conoscenza. Guai se il mezzo diventasse il fine» (p. 156)
Di certo – è la nostra opinione – questo tipo di test non sono pensati per riconoscere e far emergere il valore dei liberi pensatori, degli artisti, di quanti fanno un uso creativo della lingua in ordine ad un pensiero estetico che è quello della grande tradizione letteraria italiana ma, riteniamo, non serve neanche a quelli che vogliono criticare il sistema sulla base di un discorso argomentato ed efficace. Lo studio della lingua italiana dovrebbe concentrarsi sulle competenze argomentative e sull’uso dei vocaboli, sulla loro singolarità e ricchezza, avendo sempre come orizzonte di riferimento l’educazione «al confronto con realtà del passato, che facciano emergere le differenze (e la relatività dei punti di vista)» (p.154). Tullio De Mauro, nell’intervista presente nell’ebook, facendo interagire gli ambiti del digitale a scuola e dello studio della lingua italiana, evidenzia «gli effetti contraddittori della digitalliteracy» (p. 158), affermando che «bisogna partire dal linguaggio. Il linguaggio porta con sé le possibilità di un uso conformistico, anche senza rete. E la rete, come potenzia le possibilità di differenziare e rendere originale, […] il nostro parlare e il nostro scrivere, così porta con sé naturalmente i suoi standard, o meglio degli standard omologanti, che possono giocare nella direzione opposta» (p.158). Secondo De Mauro il problema ricade sulle spalle degli insegnanti, sulla loro «disponibilità a interagire con il patrimonio di cultura che c’è nella rete» (p.158). Troppo spesso, però, questi insegnanti hanno trascorso «i migliori anni in una condizione di precarietà senza la possibilità di sviluppare un vero progetto didattico a lungo termine» (p.158). Logorati nel corpo e nello spirito non sono nelle condizioni ideali per sviluppare quelle competenze trasversali necessarie per affrontare la sfida offerta dalla scuola informatica.
Nella quarta e ultima parte viene affrontato da Sara Biscioni il delicato tema dell’inclusione degli alunni con «Bisogni educativi speciali» (BES), in un momento fondamentale perché tra le pieghe della tanto sbandierata «Buona Scuola» c’è un progetto di riforma che dovrebbe avere delle ricadute sostanziali sull’impianto della Legge Legge 104/92 (17), stabilendo la rimodulazione del percorso di formazione dei docenti di sostegno e la separazione delle carriere rispetto agli insegnamenti curriculari e la possibile perdita della contitolarità sulla classe. Il progetto rischia di portare le lancette dell’orologio indietro di più di un quarantennio, al periodo che precede la Legge n.517 del 4 agosto del 1977che aboliva le classi differenziali, questo perché la tanto sbandierata idea di «scuola inclusiva» rischia di naufragare nelle secche della delega a personale formato principalmente non come insegnante ma come figura specialistica per affrontare il tema della disabilità. Una sorta di funzione ibrida, né insegnante né medico, cui verrebbe affidato il compito di gestire l’alunno con «bisogni educativi speciali», con quali orizzonti didattici non è dato al momento sapere. Come afferma Biscioni «le raccomandazioni dell’Unesco per la “scuola inclusiva” si basano, appunto, sull’inclusione di tutti gli alunni in scuole “normali” e sull’attivazione in esse di percorsi che rispondano ai bisogni di ogni alunno» (p. 164). Ma una riforma pensata per separare le cattedre curriculari da quelli di sostegno svilupperà questa scuola normale o riproporrà la logica esclusiva delle classi differenziali, questa volta riprodotta in un contesto di sola apparente integrazione? L’interrogativo è più che legittimo e il dubbio che ci sia anche una volontà punitiva dietro una riforma pensata per scoraggiare i «furbetti» -leggasi docenti – delle facili «scorciatoie» (18) che si sarebbero serviti del sostegno per raggiungere l’agognato ruolo non fa che rendere tutto più oscuro, torbido.
Eppure stranamente, vista la retorica sullo sfascio della scuola italiana, sul tema dell’inclusione scolastica degli alunni con BES l’Italia è all’avanguardia, non soltanto grazie alla citata legge 517 del 1977, «(preceduta dalla 118 del 1971 e seguita dalla 104 del 1992) che poneva fine alla ghettizzazione degli alunni disabili nelle scuole speciali» (p. 164), ma anche grazie ad una formazione di insegnanti specializzati sul tema della disabilità che possono acquisire al momento il titolo soltanto dopo l’abilitazione disciplinare: insegnanti bis-abili, quindi, che in un contesto particolarmente problematico si trovano a dover inventare quotidianamente la sintesi integrativa tra tensioni spesso divergenti quali quelle offerte da un ambiente non pensato per facilitare il loro lavoro. Ma che cos’è un «Bisogno educativo speciale»? Secondo le parole di Dario Ianes, del Centro Studi Erickson, riportate nel contributo:
«è qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e/o istruzionale, causata da un funzionamento, nei vari ambiti definiti dall’antropologia Icf [International Classification of Functioning Disability and Health], problematico per il soggetto in termini di danno, ostacolo al suo benessere, limitazione della sua libertà e stigma sociale, indipendente dall’eziologia (bio-strutturale, familiare, ambientale, culturale ecc.) e che necessita di educazione speciale individualizzata» (p. 167)
Questa definizione «si basa su un approccio descrittivo funzionalista, bio-psico-sociale, non eziologico, ovvero sganciato dal riferimento alle categorie mediche diagnostiche che vengono usate per definire la disabilità (ICD, International Classification of Disabilities)» (p. 167), e indica proprio lo svincolamento dalle categorie mediche per porre al centro dell’attenzione la «persona stessa nella sua interazione con il contesto» (p.168). Da qui ne consegue che «l’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit» (p.168) perché riguarda le esigenze particolari dello studente che sono legate alla contingenza e alla singolarità del suo percorso di vita, al di là delle situazioni esplicitamente diagnosticate attraverso apposita Diagnosi-funzionale dall’autorità medica. Come afferma Biscioni: «In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse» (p. 169). In questo modo vengono sussunte sotto un’unica categoria bisogni diversi e «Il concetto di Bes, che voleva (a quanto dicono) sopprimere ogni stigmatizzazione, si trasforma invece in una superetichetta che amalgama difficoltà che dovrebbero essere trattate in modi diversi» (p.169). Qual è la strada intrapresa dal Miur per affrontare queste situazioni così diverse? Quella di affidare agli insegnanti l’onere di redigere «un percorso individualizzato e personalizzato per alunni e studenti con bisogni educativi speciali, anche attraverso la redazione di un Piano didattico personalizzato, individuale o anche riferito a tutti i bambini della classe con Bes [!], ma articolato» (p.160). Insomma il tema dell’inclusione viene scaricato a costo 0 sui docenti di consigli di classe chiamati a svolgere funzioni aggiuntive particolarmente gravose vista la delicatezza del compito. Ancora una volta sembra fare capolino il tema della società di mercato, della sua logica, dei principi che la reggono e che Biscioni così riassume:
«la categoria Bes è solo in minima parte una categoria pedagogico-didattica: si tratta in larga misura di una categoria politica. Essa consente di scaricare ogni responsabilità sull’ambito individuale (responsabilità dei docenti, degli studenti, delle famiglie), oscurando le colpe di un sistema economico-politico che perpetua le ingiustizie economiche, sociali, culturali ed educative» (p. 195).
Una scuola, quindi, che anche sul tema dei «Bisogni educativi speciali» si nasconde dietro la retorica e gli slogan, ma che in effetti scarica sul personale scolastico nella sua interezza – e in particolare su quelle figure doppiamente specializzate e doppiamente punite- l’onere di una situazione gravosa che ben altri fondi e ben altre politiche meriterebbe. Questa scuola, che da domani si vuole immaginare #Buona, nelle sue idiosincrasie rispecchia le contraddizione di una società – quella neoliberista – che ha a cuore soltanto il suo progetto di ingegneria sociale costituito da test, misurazioni e valutazioni che seguono le logiche del management, e che devono alla fin fine sviluppare teste vuote utili per un mercato efficiente fatto di consumatori contenti.
Note
(1) Redazione Orizzonte Scuola, Degli alunni H si occuperanno tutti i docenti, stop passaggio su materia. Stranieri gestiti con l’organico funzionale, Orizzonte Scuola, http://www.orizzontescuola.it/news/riforme-degli-alunni-h-si-occuperanno-tutti-docenti-degli-stranieri-lorganico-funzionale [ultima visualizzazione 28/03/2015].
(2) Qui scaricabile gratuitamente nella versione PDF e EPUB: http://www.lavoroculturale.org/teste-colli-lebook-buonascuola/
(3) Salmon, IL ROTTAMATORE NON C’È PIÙ: ORA RENZI È UN MARATONETA DEL POTERE, «Gli Stati Generali», http://www.glistatigenerali.com/partiti_politica_politici/il-rottamatore-non-ce-piu-ora-renzi-e-un-maratoneta-del-potere/ [ultima visualizzazione 29/03/2015] e C.Salmon, NON MANTENERE LE PROMESSE E DARE LA COLPA AL SISTEMA: LO STORYTELLING DI RENZI, «Gli Stati Generali», http://www.glistatigenerali.com/partiti_politica/non-mantenere-le-promesse-e-dare-la-colpa-al-sistema-lo-storytelling-di-renzi/ [ultima visualizzazione 29/03/2015].
(4) R.Sandrucci, La scuola sotto il genere della commedia. Rappresentazione della scuola pubblica italiana: studio su sette casi, edizioni ETS, Pisa 2012.
(5) Redazione Lc, Teste e colli. L’ebook sulla #BuonaScuola, il Lavoro Culturale, http://www.lavoroculturale.org/teste-colli-lebook-buonascuola/ [ultima visualizzazione 28/03/2015]
(6) Laval, Christian, Neoliberismo a-democratico, intervista di Davide Gallo Lassere a Christian Laval, Alfabeta2, maggio 2012.
(7) F.Milazzo, Bisogna difendere la scuola! Biopolitica e istruzione in Italia in Claudia Boscolo (a cura di), Non fate i bravi. Educare e normalizzare in Italia oggi, e-book, PSYCHIATRY ON LINE ITALIA 2014.
(8) M.Salbego, A cosa servono le “competenze”?,Doppiozero, http://www.doppiozero.com/materiali/sala-insegnanti/cosa-servono-le-competenze.
(9) P.Dardot e C.Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, trad.it. di R.Antoniucci e M. Lapenna, Derive Approdi, Roma 2013, p.7
(10) F.Milazzo, Bisogna difendere la scuola!Biopolitica e istruzione in Italia in Claudia Boscolo (a cura di), Non fate i bravi. Educare e normalizzare in Italia oggi, e-book, PSYCHIATRY ON LINE ITALIA 2014.
(11) M.Salbego, A cosa servono le “competenze”?,Doppiozero, http://www.doppiozero.com/materiali/sala-insegnanti/cosa-servono-le-competenze.
(12) Ibidem
(13) F.Milazzo, Bisogna difendere la scuola! Biopolitica e istruzione in Italia…cit.
(14) Come recita il titolo del fondamentale saggio che Valeria Pinto ha dedicato all’argomento: Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Cronopio ed., Napoli 2012.
(15) E. Manera, «Per un uso utile, consapevole e realistico delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (tic) a scuola» in Marco Ambra (a cura di ), Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola, collana gli ebook de il lavoro culturale, 2015, p.79.
(16) Sulla problematicità del concetto di «nativi digitali» vedi: P.C. Rivoltella, Insegnare al cervello che apprende, Raffaello Cortina, Milano 2012, pp.10 e segg. Più in generale sulla questione vedi: M.Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, trad.it. di A.Petrelli, Corbaccio, Milano 2013.
(17) Testo di legge del 5 febbraio 1992 n. 104, http://www.handylex.org/stato/l050292.shtml [ultima visualizzazione 28/03/2015]
(18) Redazione Orizzonte Scuola, Degli alunni H si occuperanno tutti i docenti, stop passaggio su materia. Stranieri gestiti con l’organico funzionale…cit.
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