I GIOVANI E IL LAVORO: un articolo di Francesco CIAFALONI

21 aprile 2015 - Blog

Riportiamo qui di seguito un articolo di Francesco Ciafaloni sul tema i giovani e il lavoro, pubblicato su “Gli Asini. Educazione e intervento sociale” (anno IV – marzo/aprile 2015). 

Le considerazioni che seguono sono basate sul Rapporto annuale 2014. La situazione del paese e sul Quarto rapporto sul mercato del lavoro degli stranieri in Italia, entrambi dell’Istat, e sulla sintesi delRapporto sulla situazione sociale del Paese 2014 del Censis. Ma è impossibile in poche pagine dare un’idea, seppure sintetica, dei tre rapporti, mentre sono importanti proprio i dettagli e le differenze, dove si annidano gli effetti di quel poco che dipende dalle scelte politiche a breve. E’ ovvio che la scelta degli aspetti rilevanti e dei rari dati citati è mia. Proprio per questo segnalo i link delle fonti. I numeri qualche volta mentono, ma meno della pubblicità dei governi.

Demografia

I giovani residenti in Italia sono pochi e, in percentuale significativa e crescente, non sono cittadini italiani. Gli indicatori pubblicati dall’Istat a metà febbraio e commentati, con un eccesso di enfasi, dai giornali, non segnalano nessuna novità rilevante. Il numero dei figli per donna in Italia è al di sotto della riproduzione semplice (2,1 figli per donna) da decenni.

La bassa natalità (nati in percentuale sulla popolazione) non dipende solo dalla bassa fecondità ma dall’alta percentuale di donne che sono oltre l’età fertile. Per alcuni anni le donne immigrate, più giovani, hanno compensato la bassa natalità delle cittadine italiane. Dall’anno scorso la maggiore fecondità delle immigrate (2,2 figli per donna l’anno scorso; 1,97 quest’anno, contro 1,31 delle cittadine italiane) non basta più. Il numero totale dei nati, dei quali poco meno di uno su cinque non è cittadino italiano, cioè ha tutti e due i genitori stranieri, si avvia a scendere sotto la soglia del mezzo milione. Le novità sono dettagli: la diminuzione del numero degli immigrati nuovi (e quindi anche delle immigrate nuove, con effetti sulla natalità futura) che però resta di 255.000; l’aumento degli emigrati italiani (91.000, sottostimati perché molti emigrano senza cancellare la residenza, contro 26.000 ritorni); gli stranieri residenti sono 5 milioni 73 mila, 8,3% su una popolazione totale leggermente aumentata a 60 milioni 808 mila. Nulla di straordinario: la tragedia sarebbe, o sarà, se, o quando, gli stranieri smetteranno di arrivare, non tanto perché scoraggiati dalle nostre pessime leggi ma per il degradarsi della situazione economica e sociale. Il tasso di attività (regolare) degli stranieri, che è stato più alto di quello degli italiani di 10 punti, anche se è diminuito resta tuttora di qualche punto più alto. Il numero dei lavoratori stranieri continua a crescere e spiega il perdurare della produzione industriale e dei servizi nella crisi. I giovani italiani devono semplicemente abituarsi al fatto che quando dicono “noi giovani” alludono anche a persone non nate in Italia; che quando dicono “migranti” alludono, come qualche decennio fa, anche a cittadini italiani. Veramente drammatica è solo la situazione del Mezzogiorno dove a un saldo naturale negativo (più morti che nati) si somma un saldo migratorio negativo (più partiti che arrivati) perché a partire sono soprattutto i giovani e l’invecchiamento, che riguarda soprattutto la montagna, le zone più povere, diventa distruttivo. Con i criteri puramente contabili, o peggio che contabili, usati nella Sanità e nella scuola, se ci sono pochi bambini chiudono le scuole rendendo la vita (o almeno l’istruzione) impossibile per i pochi rimasti. Se non ci sono abbastanza nascite chiudono gli ospedali specializzati. Se non ci sono abbastanza abitanti chiudono anche gli ospedali generici; i tribunali; i comuni. In qualche caso c’è anche una logica non puramente contabile perché dal numero dei casi trattati dipende la qualità del servizio; ma intanto la società crolla. Sta avvenendo nella montagna piemontese, figuriamoci in Basilicata o Calabria.

Lavoro

La disoccupazione, ovvia conseguenza della crisi, in aumento in tutta Europa, anche se con forti differenze, è il problema fondamentale. I giovani sono ovviamente i più colpiti, per le mancate assunzioni, per la maggiore presenza tra i precari, i contratti a termine, i lavori marginali, che spariscono per primi quando ci sono problemi. Anche nei paesi ancora vicini alla piena occupazione, come la Germania, la percentuale dei giovani tra i disoccupati è simile a quella dei paesi ad alta disoccupazione, come l’Italia (vedi Rapporto Censis). La disoccupazione giovanile è un problema anche nell’Europa del Nord e viene affrontata con incentivi fiscali, programmi mirati, ecc. Ma, si capisce, un conto è la percentuale dei giovani tra i disoccupati, un conto la percentuale dei disoccupati tra i giovani. Anche se meno dei vecchi, nei paesi vicini alla piena occupazione, i giovani un lavoro per lo più lo trovano.

Le differenze percentuali tra paesi sono però enormi. Prendo i numeri del novembre scorso dal link che allego: Spagna 53,5%; Grecia 49,8%; Croazia 45,5%; Italia 43,9%; Francia 25,4%; Romania 23,3%; Polonia 23,2%; Svezia 23%; Regno Unito 16,3%. All’altro estremo: Danimarca 11,4%; Olanda 9,7%; Austria 8,9%; Germania 7,4%. Nessun programma, a quanto pare, è riuscito a rovesciare il trend. Nel caso dell’Italia le misure politiche adottate hanno fortemente accentuato la maggiore disoccupazione dei giovani mentre i cosiddetti programmi mirati sono stati del tutto inutili. Ma su questo tonerò tra poco.

Si capisce benissimo perché i giovani italiani cerchino lavoro in Germania dove la percentuale di giovani disoccupati è 1/5 di quella italiana; o nel Regno Unito dove è meno della metà e ci sono vantaggi di lingua, sanitari, di catena migratoria. Leggere, come accade, di successo delle misure di politica economica in Spagna fa venire i brividi. E, come sappiamo, il dato medio nasconde differenze tragiche se si disaggrega per genere e per regione, per titolo di studio; e se si guarda al tasso di inattività che tiene conto anche degli scoraggiati, degli invalidi. E’ vero che il lavoro nero o criminale è più alto proprio nelle aree depresse e spiega la sopravvivenza fisica; ma non garantisce certo il benessere sociale.

Istruzione

L’istruzione, la formazione in tutti i sensi, la scuola sono il punto centrale della crisi italiana, in particolare se vista dai giovani. Le crisi, forse, sono sempre prima culturali che economiche, anche se sono mondiali. Le crisi locali particolarmente gravi lo sono di sicuro. Certo ci sono cause materiali di lungo periodo che non si può far finta di ignorare. La geologia è quella che è. La demografia si produce nei decenni e non cambia per scelte dei governi. Ma i motivi per cui si fa finta di non vedere e si resta perennemente impreparati, nati ieri, davanti a eventi che si vedono arrivare da decenni sono culturali, discendono dalla formazione, dalla scuola, dalla comunicazione.

Gli italiani, anche i giovani italiani, sono poco istruiti. In Finlandia completa l’istruzione di terzo livello il 78% dei giovani; in Svezia il 68; in Norvegia il 67; in Danimarca il 65. In Italia siamo al 23%. Non solo abbiamo l’eredità dell’analfabetismo storico delle campagne, insieme alla fine della società in cui si poteva essere analfabeti e competenti, oltre che saggi, ma la formazione di terzo livello è in contrazione per i giovani. Questo è il quadro del rapporto Censis:

“Tra il 2008 e il 2013 gli iscritti alle università statali sono diminuiti del 7,2% e gli immatricolati del 13,6%. L’andamento decrescente ha interessato tutti gli atenei tranne quelli del Nord-Ovest, dove gli iscritti sono aumentati del 4,1% e gli immatricolati dell’1,3%. Nelle università del Nord-Est la contrazione dell’utenza è stata più contenuta: -2,3% di iscritti e -5,9% di immatricolati. Al Centro il numero degli studenti iscritti si è contratto del 12,1% e quello degli immatricolati del 18,3%. Negli atenei meridionali rispettivamente dell’11,6% e del 22,5%.”

Temo che il basso numero sia tutt’altro che compensato dalla qualità.

Non ho nessuna intenzione di mandare tutti all’università per forza; e neppure, per forza, al liceo. Leggevamo Illic fin da bambini. Ma qui, nelle città, non funziona né la società né la scuola. Dal finire degli anni ’80, a Torino, gli ebanisti, i falegnami che lavorano di fino, i tappezzieri, che tra loro, negli anni ’80 si chiamavano ancora ad alta voce col nome del mestiere – menuisieur, tapisseur – non si sono più riprodotti per trasmissione familiare. Gli ebanisti sono diventati marocchini. Naturalmente il mestiere lo avevano imparato anche loro per trasmissione familiare, in Marocco. Ma in qualche modo – a casa, a scuola – il mestiere, fosse pure il mestiere di mettere le parole in fila, o il mestiere di vivere, bisogna impararlo. Nei paesi, come nel posto dove abito, i mestieri – mestieri semplici, antichi – si trasmettono ancora. In generale però né la scuola né la società formano al lavoro e alla cittadinanza. Non è solo l’Università o la scuola media (famosa per questo) che non funziona. Non abbiamo una scuola di formazione professionale; non solo nel Mezzogiorno, dove sono famose le frodi, ma anche a Torino. Qui la più nota scuola professionale (lo CSEA-Giulio Pastore) è finita sotto processo per frode; altre si dibattono tra inclusione lassista, che nega il fine della formazione al lavoro, e bocciatura a tappeto, che nega il fine della inclusione. Commenti esteri danno per scontato che in Italia non c’è una vera scuola di formazione professionale ma solo una cattiva scuola di seconda categoria per emarginati. Il Rapporto Censis passa in rassegna l’alternanza scuola-lavoro per constatare con sconforto che riguarda il 9% degli interessati. Non c’è formazione continua adeguata.

Vittorio Capecchi va avanti a segnalare da almeno 40 anni che in Italia non c’è una classificazione attendibile delle qualifiche; che hanno lo stesso titolo corsi di anni e corsi di settimane; che il sistema può ancora reggere localmente, dove tutti si conoscono, dove i distretti funzionano, ma si frantuma se i mestieri cambiano e il bacino di utenza – o anche solo il sistema dei finanziamenti – si allarga. Lo sconquasso lo si vede arrivare da quando ho memoria. Sono decenni che le aziende assumono lavoratori più istruiti del necessario, per compensare la mancanza di qualifiche specifiche. Se ci sono buone iniziative di formazione finiscono con l’essere penalizzate dalla mancanza di sbocchi. Ci sono gruppi di giovani insegnanti che lavorano molto e certo hanno qualche risultato. Anch’io, che non ho particolari titoli, mi sono sforzato per decenni di fare formazione, con programmi nelle classi e fuori delle classi – e non me ne pento certo. Gli amici giovani (o quasi) che ho vengono da quegli anni. Ma siamo molto lontani dalla sufficienza. Se non si raggiunge la massa critica, la barca affonda lo stesso.

Il maggior successo, almeno a Torino, delle associazioni religiose rispetto a quelle laiche dipende dal fare sistema, dall’essere una scuola (come una volta erano le scuole sindacali, o le scuole di partito), dall’essere, nel loro piccolo, e qualche volta senza il nome, ordini monastici, con una regola, e un po’ di risorse finanziarie.

I giovani sono colpiti dalla crisi della formazione in due modi, l’uno più grave dell’altro: come utenti e come forza lavoro. Se vogliono diventare bravi, come persone e come lavoratori, devono, salvo casi fortunati, fare da sé, essere in qualche misura autodidatti. Ma, se diventano bravi, non hanno sbocchi di lavoro lo stesso. Non è solo l’industria che non assume per la crisi. La massima causa di disoccupazione è il blocco delle assunzioni nel Pubblico Impiego. La scuola non haturnover, non ci sono abbastanza asili e scuole materne, il terzo settore in cui i giovani si erano rifugiati è stato smantellato in pochi anni (sono impressionanti le cifre Istat); l’intero sistema pubblico non assume più. Le piccole e piccolissime aziende, se non sono in crisi, hanno un sistema di trasmissione della proprietà e di assunzione familiare – e non tutti sono figli di piccoli imprenditori, fossero pure le bancarelle del mercato della frutta.

Cause

Ci sono senz’altro cause di lungo periodo della crisi attuale, dopo la rinascita del dopoguerra. Ci sono mutamenti di cui è difficile indicare gli autori: i cambiamenti della popolazione nel mondo e in Italia; la fine del proletariato in senso proprio nei paesi di vecchia industrializzazione; i mutamenti delle tecnologie; il dominio della finanza nell’economia. Ma ci sono cause meno universali e impersonali; scelte politiche che hanno autori e ispiratori, non necessariamente riconducibili a una singola parte politica, ma ben individuabili.

L’introduzione del Rapporto Censis 2014 sottolinea la separatezza delle sfere (la metafora usata questa volta è le giare) in cui sarebbe diviso l’universo sociale: i poteri sovranazionali, quelli nazionali, le istituzioni, le minoranze vitali, il quotidiano, il sommerso. Un po’ frammentata la società lo è sempre; ma l’influenza esercitata dai poteri sovranazionali e nazionali sulle nostre vite, sulle istituzioni, sul quotidiano, sulle minoranze vitali sono stati notevoli e non inconsapevoli. Luciano Gallino, come altri, ha individuato il motore ideale e ideologico di ciò che ci capita nel dominio dell’economia neoliberale, cioè nell’economia come ricchezza dei ricchi, come dimensione unica del mondo, cui tutte le altre dimensioni sono subordinate, o addirittura, come si diceva una volta, in cui sono sussunte. La citazione di Gallino da Milton Friedmann ne Il colpo di Stato di banche e governi – “dovremo sostenere i nostri principi fino a che il politicamente impossibile non diventi politicamente inevitabile” è una specie di monologo di Gloucester nelRiccardo III. Non è stata la testardaggine di Milton Friedmann da solo a metterci in questi guai; ma l’intera classe dirigente mondiale e buona parte della cultura dominante ha dato il suo convergente contributo. I governi, di vario colore, che si sono succeduti negli ultimi anni e che hanno tagliato le pensioni, allontanato l’età di pensione, ridotto i salari, tagliato i finanziamenti alla Sanità e alla scuola, non solo hanno materialmente prodotto la disoccupazione giovanile, perché se i vecchi non vanno in pensione, per i giovani non c’è posto, ma lo hanno fatto proprio per ottenere il risultato che hanno ottenuto. Volevano e vogliono abolire la rappresentanza del lavoro, per abbassarne il costo e ridurne l’autonomia, distruggere o ridurre la Sanità pubblica per far posto a quella privata, distruggere la scuola pubblica, ridurre non il passivo, che non c’è, ma ladimensione del sistema pensionistico. Non sono interpretazioni faziose. La Fornero pensa (e ha scritto) che l’ammontare delle pensioni future dovute dall’Inps ai dipendenti pubblici e privati sia debito pubblico, non una fase del circuito assicurativo solidaristico tra generazioni in cui i lavoratori attivi pagano e quelli in pensione ricevono, che può andare in passivo solo se quelli che lavorano sono troppo pochi o troppo poveri. Se il valore attuale delle pensioni future fosse un debito pubblico come il resto, sarebbe stato folle bloccare le pensioni per anni e anni, a danno di tutti, anziché bloccare il pagamento degli interessi sul debito, magari solo quello verso istituzioni, a danno temporaneo dei soli creditori. Ma quello è debito pubblico vero, i cui interessi sono proprio dovuti ai creditori italiani e stranieri, privati ed istituzionali. Se non si paga si fallisce. Quello assicurativo è un patto politico tra generazioni che è stato modificato con atroce incompetenza e con danni evitabili, a parità di vantaggio economico per le casse dello Stato, ma potrebbe essere modificato in maniera sensata se in futuro diventasse indispensabile, senza far fallire nessuno.

Allo stesso modo la distruzione dell’insegnamento pubblico non è una conseguenza della necessità di far cassa, ma un fine primario, quanto lo è la crescita del privato e la riduzione del pubblico nella Sanità e in tutti i settori in cui lo Stato ha appaltato, ceduto, venduto, sostituito precari ai lavoratori stabili, anche nei monopoli naturali, anche per i beni comuni. Stiamo vedendo con le ferrovie da qualche anno e cominciamo a vedere in altri settori dove porta l’artificio giuridico della separazione delle rotaie e rete elettrica da un lato e convogli dall’altro; o dei tubi da un lato e gas (ed acqua, se non ci fosse stato il referendum o in barba ad esso) dall’altro. Il bello del privato è non farti sapere nulla e non avere il vincolo della garanzia e universalità del servizio. Ma tutti sembrano convinti che privato è efficienza, trasparenza e pubblico è spreco e corruzione. La differenza invece è che ciò che nel privato si chiama “commissione” ed è lecito nel pubblico si chiama “tangente” ed è illecito. Ma sempre di ungere le ruote si tratta.

Così la Pubblica Amministrazione si rappresenta come decisore puro, che non deve essere competente in nulla perché la competenza la devono avere quelli che prendono l’appalto. Dovrebbe controllare, ma non accade mai.

Vie di uscita

Ce ne sono di due tipi.

Il primo tipo rispetta la separatezza del piccolo dal grande, delle minoranze attive dall’economia dei ricchi, dello Stato, del Fondo monetario, dei soldi. Bisogna andare avanti a fare ciò che sappiamo fare cercando di trovare localmente le risorse tagliate dagli enti pubblici (non necessariamente soldi ma aiuti pratici) e ricorrendo al volontariato totale se è necessario, come già avviene da parte dei molto giovani, che riescono a farsi mantenere dalle famiglie, e dei vecchi, che hanno ancora una pensione. Certo è diventato molto più difficile di recente. Se in passato si potevano criticare circuiti di puro autoconservazione del terzo settore, ora, se ci si guarda intorno, si vede il deserto. Inoltre la situazione non è stabile. L’allungamento della vita di lavoro riduce la possibilità del volontariato degli anziani. I giovani disoccupati e scoraggiati possono cercare e trovare il cortocircuito del lavoro nero, autonomo o dipendente; o sbandarsi in vario modo.

Non si può accettare che un secolo di storia del movimento operaio venga cancellato. Sembra che la sconfitta, la fine, delle organizzazioni sindacali sia diventato il fine della politica. Il lavoro viene concentrato aumentando gli orari, chiedendo straordinari, anziché ripartito, come sarebbe logico. I giovani vengono tenuti fuori così a lungo dalla società attiva che non li ripesca più né l’ambiente né la scuola. Bisogna rompere la sfera delle minoranze attive e provare a modificare le alte sfere (o le giare del potere).

Questa è la soluzione del secondo tipo, quella politica, che, forse, non è più un’opzione ma una necessità. C’è il piccolo particolare che non sempre le cose necessarie avvengono. I governi sono riusciti a convincere i cittadini, vecchi e giovani, a non partecipare alla politica. Se un Presidente del Consiglio dice, come ha detto Renzi, che non importa se ha votato il 37% (come è avvenuto alle regionali emiliane); l’importante è che lui ha vinto, non c’è più limite. Nessuna protesta silenziosa o urlata, nessuna manifestazione, nessuna astensione, nessun Aventino, può raggiungere risultati, essere una via di uscita, se non convince la maggioranza dei cittadini. Ora le mobilitazioni si realizzano solo su temi singoli, o locali, e raramente riescono a raggiungere realmente i loro obbiettivi. Il lavoro più importante mi sembra quello di elaborare idee politiche generali e coerenti, non limitate alla difesa di un solo diritto; al rifiuto di una singola sopraffazione. Non è un lavoro impossibile. Non si tratta di un’impresa individuale ma sociale; di storia; di cultura; di scuola; di comunicazione. Le risorse culturali ci sono. Bisogna solo fare in fretta perché il mondo non sta fermo. Alcuni poveri possono decidere di servire i ricchi per opprimere gli altri poveri; o i poveri di un paese possono schierarsi con i ricchi del proprio paese contro i ricchi (e i poveri) di un altro. Molti pensano che, intanto, bisogna buttare a mare gli stranieri. Stanno nascendo, e possono crescere, ideologie di estrema destra. I giovani dovrebbero rendersi conto che se non si salvano da soli non li salverà nessuno. Si tratta di elaborare nei dettagli i nostri principi di solidarietà, uguaglianza, libertà e dimostrare che siamo testardi anche noi; che siamo capaci anche noi di insistere fino a che il politicamente impossibile non diventi politicamente inevitabile.

http://www.istat.it/it/archivio/120991

http://www.lavoro.gov.it/Notizie/Documents/IV%20Rapporto%20annuale%20MdL%20immigrati%202014.pdf

http://www.ipasvi.it/archivio_news/attualita/1375/SINTESI%20RAPPORTO%20CENSIS%202014.pdf

http://nowbase.org/~/media/Projekt%20sites/Nowbase/Publikationer/Andre/Youth%20Unemployment.ashx

http://www.statista.com/statistics/266228/youth-unemployment-rate-in-eu-countries/

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