INTERVISTA A CLAUDIO MUTO sul suo libro “I PAPPATACI DEL SOCIALE”
21 settembre 2015 - Blog / Formazione popolare
Claudio Muto, relatore alla Formazione Popolare in data 18 settembre, ha risposto a qualche domanda sul suo libro “I pappataci del sociale”.
Il tuo libro “I pappataci del Sociale” è chiaramente scritto e animato da uno spirito “militante” di chi ha vissuto in prima linea le dinamiche del Sociale e di chi non si è accontentato di viverlo e raccontarlo retoricamente e in maniera edulcorata e astratta. Quale è stata la spinta politica, culturale ed emotiva che ti ha portato a questo tipo di narrazione? E come ti è scaturita la metafora dei “pappataci” per descrivere certi personaggi operanti nel Terzo Settore?
Come indico in premessa del libro, l’idea di scrivere della mia esperienza nel sociale e nella cooperazione, l’avevo maturata molto tempo prima di riuscire a buttare giù anche solo qualche piccolo abbozzo. Una lettura folgorante mi ha permesso di “ordinare” caoticamente i pezzi e tentare il varo dell’opera: “Le mosche del capitale” di Paolo Volponi. Dal titolo del romanzo ispiratore si può capire anche da dove proviene la metafora dei pappataci – Pappataci del sociale; quindi, una sorta di tributo alle Mosche di Volponi. Da questa fonte non arriva solo il titolo, ma molto del mio tentativo letterario. Perché i pappataci? Sono piccoli, non fanno rumore, non sporcano, non si conoscono tanto, li si scambia addirittura per altre bestiole – come i moscerini della frutta marcescente; ma succhiano il sangue, come e più di altri insetti, ma non ce ne preoccupiamo… pensiamo alle mosche, alle zanzare, ai calabroni… La spinta emotiva è stata forte, primaria; i pappataci mi hanno permesso di fare un po’ i conti col mio passato e di considerare sotto altra luce molto di ciò che avevo pensato e fatto nel mondo del sociale. Le spinte culturali e politiche sono importanti, sempre più importanti – mentre porto i pappataci in giro nelle presentazioni e nelle librerie, ma successive al motore emotivo e più personale.
Uno dei principali problemi degli operatori del Sociale sta nell’incapacità di concepirsi come lavoratori, sulla nostra attività aleggia sempre lo spettro del “missionario”, la retorica del “buono” sempre pronto a prodigarsi per le “fatiche del mondo”. Nonostante i governi di ogni colore, a braccetto con le imprese del Terzo settore, negli anni della crisi abbiano accentuato lo squilibrio tra capitale e lavoro anche nel nostro ambito e abbiano reso “stabile” la condizione di precarietà lavorativa, siamo colpevoli di non riconoscerci come corpo collettivo, come portatori di domande di condizioni di vita universali. Tu nel libro, oltre a denunciare tutto ciò, fai emergere il concetto di operaio sociale. Ci spieghi cosa intendi con questa definizione?
Qui il discorso sarebbe lungo, ma cerchiamo di andare sommariamente per immagini forti e riconosciute, proprio come quelle che vengono evocate nella domanda: il missionario e il buono. I lavoratori del sociale non si sono mai riconosciuti come corpo al lavoro, come comunità di lavoro, per tanti motivi, anche, diciamo, “positivi”. Per ragioni di provenienza e di origine – dalla militanza, per esempio; per ragioni di magmaticità del settore, dove il Terzo Settore comprende tutto ciò che si possa immaginare, compreso il lavoro gratuito – da sempre – per dirla con Moro; perché il lavoro nel sociale è nato “marginale”, dalla dismissione strisciante e silenziosa del welfare state novecentesco – e di tutti i suoi diritti e delle sue organizzazioni; per la particolare popolazione al lavoro, soprattutto soggetti svantaggiati e giovani o giovanissimi; per motivi di subalternità culturale; e per tanti altri motivi che sarebbe davvero interessante parlarne insieme. Lo squilibrio tra capitale e lavoro, si, è allucinante in questo settore; leggere l’ultimo rapporto ISTAT è stato pietrificante, vi si leggono cose, sul non profit, che si stenta a credere. Ad oggi si può dire tranquillamente che il Terzo Settore è la punta di lancia del nuovo modello di lavoro post-moderno, con pochi diritti, tanta precarietà e un’espansione irrefrenabile a danno del settore pubblico. L’operaio sociale, o operatore, è l’operaio massa applicato a tutti settori di lavoro della società, non più solo nei grandi stabilimenti-mostro dell’estinto industrialismo fordista. Ma un operaio, come dicevamo, senza comunità politica e culturale di riferimento. E questo come contraltare a chi si crede “imprenditore di se stesso” o, forse peggio, artigiano sociale.
Uno dei capitoli che ci ha più colpiti è quello in cui Moreno Cardillo, il protagonista del tuo romanzo, prova un grande senso di nausea durante una manifestazione di protesta del comparto Sociale, in cui si dissente come in un teatro, come in un gioco… come cosa che se non fatta metterebbe in crisi, il loro sentirsi progressisti e il loro credo in un mondo migliore che bisogna tanto attendere ma su cui non è necessario fare nulla se non manifestare per pretenderlo dai potenti. Insomma si fa riferimento ad una pseudo-conflittualità che non ha collegamenti con la vita vissuta, con il quotidiano. Noi pensiamo che solo attraverso una cultura del conflitto e della militanza educativa e politica si possano ricreare le basi per una Comunità liberata ed emancipata. Da quali temi e pratiche ripartire per raggiungere questo obiettivo? Quali forme sociali e politiche dobbiamo riscoprire o reinventare per costruire una società alternativa a quella esistente?
La pseudo-conflittualità è diffusissima; nel sociale era, e penso lo sia ancora, imperante. Nel Terzo Settore – e il nome stesso è un pugno nell’occhio in quanto a pseudo-conflitto – ossia alternatività a Stato e Mercato, quando vi lavoravo, prima delle “purghe” professionalizzanti, abbondavano i cosiddetti militanti sociali, i politicizzati, gli alternativi, i sindacalizzati di base, ma lo stato del settore, come abbiamo già detto in altri modi, era pietoso, straziante. Individualismo, interessi di gruppo o di territorio, appartenenza a bande o a piccoli eserciti, tendenza al mercificare tempo e saperi, il farsi imprenditori sociali come obiettivo primario, la propensione ad aziendalizzare le cooperative, l’obiettivo di dismettere l’inefficiente settore pubblico, il far prevalere la tecnocrazia della professione, l’escludere utenti e territori dalle scelte importanti; fino anche, spesso, fare lavoro sociale, perché comodo, con porzioni di potere e privilegi, magari trascurando utenze e bisogni a cui si doveva rispondere con i soldi dei contribuenti. Questo Terzo Settore è, a mio parere, irrecuperabile. C’è bisogno di scrivere una nuova pagina di questa lunga storia che prende le sue mosse, non dimentichiamolo, dalla Primavera dei Popoli del 1848. Molti studi e saggi stanno attraversando il tema del lavoro sociale, diversi autori indicano diversi soggetti su cui scommettere, dai movimenti sociali alla finanza etica, dal commercio solidale al Quarto Settore, e molto altro. Credo, seguendo ciò che ho letto e apprezzato nel “Le utopie del ben fare” di Marcon, che bisogna confrontarsi con diverse dimensioni del “problema”: rapporti con le Istituzioni, con l’economia, con la politica e con le scelte organizzative. Centrale è, sempre a mio parere, il concetto di Comunità, come voi richiamate. Senza una nuova Comunità di riferimento, ogni battaglia è persa. Quindi, confliggere, si, ma anche costruire il nuovo, e non in modo scientifico, razionale e, anche arrogante, come abbiamo ereditato dal Novecento e dalla Modernità in generale.
” I pappataci del Sociale” è un libro che permette di andare a fondo e di rendere Pubblico che il Terzo Settore è un mercato vero e proprio. Come altri settori del mondo del lavoro è ricco di umiliazioni, prevaricazioni, disuguaglianze, ma continua ad alimentare molti luoghi comuni su di sé. Ci racconti brevemente a come si è arrivati a tutto ciò, ci fai una panoramica dalla nascita delle prime cooperative e associazioni negli anni 70 fino alla svolta di “mercato” degli anni 90?
Abbiamo già detto alcune cose sul sociale come settore di lavoro, richiamando anche il rapporto ISTAT del 2011. Sui luoghi comuni e le retoriche, ricorro ancora a Moro: abbiamo scambiato una parte per il tutto, una minima parte per dare senso ad una massa informe e spaventosa. Così quando si parla di sociale, la maggior parte delle persone pensa ancora alla gratuità, al volontarismo, agli scout nelle parrocchie, alle piccole associazioni di quartiere, alla cooperativa di inserimento lavorativo che taglia i prati e fa le pulizie negli uffici e nei negozi. Una verità rappresentativa del Rapporto ISTAT: il non profit è il settore economico nazionale più dinamico e con maggior crescita in tutti gli indicatori. Cioè, come si usa dire negli ultimi tempi, è il Primo Settore, quello che più si potenzia e si ingrandisce in questa economia finanziaria, nella nostra epoca di barbarie e decadenza, arrivata al capolinea della civiltà del lavoro e forse del lavoro stesso. Le origini, come già accennato nella risposta precedente, vanno ricercate, talvolta anche in filigrana, in tutta la lunga storia del movimento operaio e del lavoro, negli sforzi fatti in due secoli di autorganizzazione per rispondere a bisogni ed esigenze delle comunità, dei territori, delle categorie. Ma la nuova cooperazione, il non profit, l’intervento sociale, il Terzo Settore, così come lo conosciamo noi, nasce negli anni ’70 del Novecento, provenendo direttamente dai contesti politico-militanti, dal cattolicesimo di base, dall’azione ricostruttrice o rinnovatrice di singoli enti e personalità, dal mondo giovanile e alternativo. Così come l’autorganizzazione operaia aveva colmato i vuoti dello stato liberale tra Ottocento e Novecento, il nuovo lavoro sociale riempie di azioni e di senso i crepacci che si sono aperti in una società industrializzata, fatta di periferie di casermoni o di intere provincie abbandonate dalla moltitudine umana, che ha stravolto la faccia dell’intero paese, contadino e provinciale fino a poco prima. E di nuovo: così com’era accaduto al mutualismo originario, anche al nuovo sociale tocca soccombere davanti alle sirene dello Stato prima e del Mercato dopo: consociativismo istituzionale, collateralismo politico, business in salsa solidale, che passano attraverso la complicità pelosa nello smantellamento dei servizi pubblici, vero motore del successo del Terzo Settore, nell’aziendalizzazione dell’intervento sociale, nella concentrata politicizzazione partitica delle Centrali confederative, nell’umanizzazione di istituzioni e pratiche indecenti, nel fungere da ammortizzatore sociale e culturale per tante categorie di persone.
Nel tuo libro, è centrale e ricca di particolari la narrazione e lo “svelamento” del Sociale, ma tocchi anche aspetti quotidiani, famigliari, psicologici soggiacenti nel protagonista e negli altri personaggi. Di particolare rilievo è secondo noi il racconto delle piccole e grandi Sconfitte che ci sono capitate negli ultimi 15-20 anni. Sconfitte personali e collettive (penso alle lotte per un lavoro dignitoso o al Movimento No Global 2001), in cui ci riconosciamo pienamente. Come il nome della nostra Associazione fa intendere il tema dei Beni Comuni è per noi centrale e fondamentale in quanto pensiamo possa contribuire a tenere unite una pratica sociale conflittuale con una proposta politica alternativa al capitalismo. Pensi possa essere questo un filone di rinascita e proposta progettuale che unisca Sociale e Politico?
Il tema dei Beni Comuni è sicuramente molto avvincente e interessante ed è indubbiamente un ambito vasto e promettente su cui lavorare: per non farsi schiacciare tra l’incudine e il martello dello Stato e del Mercato – per dirla alla Mattei; per uscire e andare Oltre il Novecento – con la sua bellicosa potenza micidiale, la sua statalità onnipresente e pervasiva, la sua titanica economia predatoria – come suggeriva Revelli; per dismettere addirittura questa Modernità – come ne tratta Angelini. Il primo bene comune, ne sono certo, deve essere la nostra stessa Comunità, come già richiamato qui sopra: il territorio in cui questa vive, le persone che la abitano, le relazioni che vi si intrecciano, le economie che vi si dispiegano, le associazioni che vi nascono, il mutualismo e il solidarismo che ne viene ispirato. Con quali strumenti, politici economici giuridici culturali sociali, è difficile dirlo, ma, certo, non impossibile. Anche su questo fronte mi sento di segnalare un enorme pericolo, costituito, guarda caso, proprio dal settore non profit. In alcune ricerche negli USA, un noto studioso, Perrow, è riuscito a dimostrare che con il crescere di quella che dalle nostre parti definiremmo Economia Civile e/o della Solidarietà, diminuiva drasticamente la capacità delle comunità investite da tale crescita e da tali lavori/progetti, di sopperire ai loro propri bisogni, con un costante maggior bisogno di “sociale organizzato” da parte di istituzioni private. Possiamo dirlo senza tanti tentennamenti: l’esistenza di un Sociale privato e mercantile mette in crisi e in pericolo l’esistenza stessa dei Beni Comuni e delle comunità territoriali.
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