IO, LE PERSONE, LE CHIAMO PER NOME; INTERVISTA A LOREDANA SCURSATONE E ELENA CAUDA, AUTRICI DEL LIBRO

21 dicembre 2015 - Blog

Come è nata l’idea di scrivere “Io, le persone, le chiamo per nome”. Che cosa rappresenta per voi questo progetto culturale?
L’idea è nata un paio di anni fa, dopo la pubblicazione di un testo scientifico sulla lingua dei segni nelle disabilità comunicative (Scursatone, Cappellino, CRITICA DEL SILENZIO, educazione al linguaggio gestuale nei deficit complessi della comunicazione, Aracne2013).
Noi due ci conoscevamo già da tempo, ma non avevamo mai lavorato insieme.
Interessandoci tutte e due di sordità e di disabilità, abbiamo affrontato insieme la necessità di rendere maggiormente accessibile questo argomento, in modo che ad usufruirne non fossero solo gli addetti ai lavori ma un pubblico più ampio.
Con lo sviluppo del lavoro però, ci siamo rese conto che poteva essere accessibile non solo ad un pubblico di adulti, ma anche agli adolescenti. E’ diventato una sorta di romanzo di formazione, pur non avendo la struttura del romanzo, che parla di adolescenza per adolescenti e per adulti.
Per noi rappresenta quindi non solo una prima esperienza narrativa, ma anche il compimento, ed allo stesso tempo l’inizio, di un percorso di psicopedagogia che verrà affrontato sotto diversi aspetti.

Ci è piaciuta molto nell’introduzione il riferimento al “punto di vista” e al fatto di offrirne uno che a livello educativo e sulla disabilità “problematizzasse”, non desse risposte preconfezionate, tranquillizzanti e rassicuranti. Ci raccontate qualcosa a proposito di questo aspetto?
Il concetto dei punti di vista ha rivestito un ruolo fondamentale nella formazione della storia, perché è quello che ci ha consentito di affrontare temi difficili da digerire come la disabilità, e tutti i preconcetti e le paure ancestrali che si porta dietro, in maniera diversa da quella che il grande pubblico si aspetta. Quello che ci interessava offrire era uno spaccato di realtà, che fosse però realmente attinente a quello che accade nella vita delle persone disabili o di chi gli ruota intorno. Non ci interessava romanzare una storia per poi offrire qualcosa che tanto reale poi non fosse.
Il flusso di pensieri ci sembrava l’espediente narrativo più idoneo a fornire dei dettagli reali sulla vita emotiva di chi affronta quotidianamente le difficoltà legate alla disabilità; inoltre questo ci ha consentito anche di dare una chiave di lettura ironica di questi temi, in modo che non fosse troppo pesante la lettura e che non sembrasse eccessivamente cinica la visione di alcuni fatti.

“Io, le persone, le chiamo per nome” è second innanzitutto una storia, la storia di Lucia e Andreina, ma che sono anche Luce e Nasoapunta. I nomi sono fondamentali per le protagoniste del libro e soprattutto nella vita reale di noi tutti. Quali sono i motivi che li hanno messi al centro della vostra narrazione?
Questa domanda ci porta al titolo del lavoro, e quindi un po’ al cuore del libro.
Uno delle grandi conquiste nella vita di una persona disabile, che sia sorda, con disabilità motorie o cognitive, è quella della propria identità. Il fatto che ad un individuo, abile o non abile, venga conosciuta la dignità di persona è un fatto assolutamente non scontato, e il nome proprio è in parte il veicolo attraverso il quale questa identità inizia a prendere corpo dalla nascita. Pensiamo ad una persona sorda, che non abbia mai sentito pronunciare il proprio nome di battesimo, e agli stratagemmi che deve utilizzare per crearsi un’identità senza questa sorta di “passaporto uditivo”. Ma questo coinvolge non solo se stessi in prima persona, coinvolge anche l’immagine che abbiamo degli altri: se per me il nome di mio fratello Pino non ha un senso perché non lo sento, per me lui non sarà “Pino” ma sarà magari “Spilungone”, perché io lo vedo così e per me questa è sempre stata la sua caratteristica principale. E questo sarà un modo per dargli la dignità che non riesco a dargli con il “passaporto uditivo” del nome di battesimo.
La riflessione di Luce parte proprio da questo punto: che cosa ci distingue come esseri umani? L’immagine che noi abbiamo di noi stessi, ma anche quella che gli altri hanno di noi e che ci riconoscono. Per questo abbiamo deciso di accompagnare i nomi che Luce assegna alle persone con un’immagine che ne riproduca il segno, che proietti sulla carta quella che è l’immagine che Luce ha delle persone che fanno parte della sua vita. Le illustrazioni non hanno lo scopo di insegnare nulla sulla Lingua dei Segni Italiana, hanno soltanto lo scopo di rendere più accessibili i pensieri di una persona che pensa con una struttura diversa da quella convenzionale.

Un aspetto interessante del libro sta nel fatto che pur non essendo e non volendo essere un trattato di psicologia o di pedagogia, riesce a descrivere molto bene molti aspetti professionali del lavoro di noi operatori sociali, i nostri limiti, le nostre contraddizioni, ma anche le difficoltà relazionali e strutturali dei nostri progetti e delle nostre relazioni con le persone con cui lavoriamo. Quali temi rispetto alla disabilità secondo voi dovrebbero essere resi pubblici e affrontati con un più serietà e approfondimento?
Questa è innanzitutto una storia, non ha quindi la pretesa di sviscerare in maniera trattatistica temi come l’attaccamento o gli stadi dello sviluppo. Tuttavia questi sono aspetti che fanno parte della vita di tutti, e il fatto che noi operatori li mettiamo maggiormente a fuoco rispetto ad altri non rende più facile affrontarli.
Le difficoltà delle professioni educative sono note solo in parte al grande pubblico, e fanno parte della sfera più romantica e idealistica: “ ma come fate…. Certo che siete dei santi…. Bisogna avere un dono…..che pazienza che avete…..”, tutto questo non fa che alimentare un’immagine un po’ falsata della professione di educatore, pedagogista, psicologo….. Le difficoltà reali fanno parte sia della sfera pratica che di quella identitaria, e di questo nessuno parla. Nel libro si accenna al rapporto tra gli operatori che hanno storie diverse a livello di riconoscimento culturale, alle difficoltà economiche di professioni che nella mentalità popolare sono un lusso per la borghesia; le storie legate alla disabilità che vengono normalmente offerte al grande pubblico sono moto filtrate (questa è una generalizzazione s’intende, esistono anche forme di informazione molto valide nel campo della disabilità), e fanno generalmente parte del rapporto commerciale che esiste tra qualsiasi offerta e le aspettative della domanda: circolano su internet molti link di persone con disabilità motorie o con sindromi di down che conseguono lauree o medaglie olimpiche, e questo senz’altro fa parte della disabilità, ma è solo un 1% della reale condizione di chi vive il disagio. Il compito di chi lavora in ambito educativo è anche quello di educare non solo gli individui ma anche la società, in modo che la popolazione riesca ad adattare la propria mente anche a ciò che è più scomodo e spiacevole in modo da poter interagire correttamente con esso.

Trasversalmente nel libro si parla di famiglia in un’ottica non edulcorata. Quali aspetti maggiormente problematici avete riscontrato nel lavorare con famiglie che hanno affrontato o affrontano un percorso con la disabilità?
La famiglia di Luce è senz’altro una summa, così come è Luce stessa. Abbiamo raccolto molti frammenti di vita di situazioni diverse che abbiamo affrontato nel corso delle nostre esperienze lavorative, ma anche alcuni aspetti autobiografici, e abbiamo creato un microcosmo che racchiude moltissime difficoltà che affrontano famiglie con disabili ma anche famiglie cosiddette “normali”. Il messaggio che volevamo passare è quello dell’astensione dal giudizio: purtroppo per noi veniamo da una cultura fortemente intrisa di spirito simil-cristiano. Tutti noi, se scaviamo nella nostra memoria, ci ricordiamo che cosa pensavano i nostri nonni della disabilità, ed in parte ancora i nostri genitori: che chi si trova ad affrontare una disgrazia simile in qualche modo lo ha meritato, e tutto questo non ha fatto che alimentare l’isolamento e il regresso dell’inclusione nella società di chi si trova ad affrontare la disabilità non come lavoro, non come cosa d’altri ma come parte della propria famiglia.
La mamma di Luce senz’altro non è un personaggio con il quale venga spontaneo allearsi, ma tra le nostre righe non vi è alcun giudizio, perché è molto chiaro che è il frutto di una mancata educazione civile, di un vuoto di contenuti che ha coinvolto parecchie generazioni.
Vi è invece una grande fiducia nei confronti della sorella, e delle nuove generazioni che saranno chiamate per prime a formarsi spontaneamente sull’argomento, senza che sia una missione ma nemmeno un obbligo come è stato in passato.
Non tutti i personaggi ce la faranno, esattamente come accade nella vita reale: alcuni evolvono, ma altri involvono e hanno ruoli estremamente negativi. Ma questo fa parte dell’ordine delle cose.

Ci aiutate a comprendere di più e meglio la metodologia della Lingua dei Segni e cosa intendete con il termine bilinguismo?
La Lingua dei segni non è una metodologia, ma una lingua vera e propria, con le sue caratteristiche, la sua struttura e la sua evoluzione. Da molto tempo però, in tutto il mondo, le è stata riconosciuta anche la dignità di metodologia riabilitativa in ambiti clinici anche al di fuori della sordità pura, come afasie o sindromi con compromissione del linguaggio. Purtroppo in Italia siamo ancora molto indietro nell’applicazione di queste metodologie, per questioni puramente economiche, nonostante che esistano studi illustri di ricercatori italiani a livello internazionale.
Quello al quale noi facciamo riferimento come “bilinguismo” è un qualcosa che va specificato molto bene, per non incorrere in equivoci.
Il bilinguismo è, nell’ambito della sordità, il riconoscimento del bambino sordo ad essere educato sia alla comunicazione orale attraverso l’apprendimento della lingua madre, sia all’educazione alla lingua dei segni. In questo caso, però, parliamo di qualcosa di ancora diverso: è vero che Luce viene educata ad entrambi attraverso la scrittura dell’italiano ed alla lingua dei segni, ma non potendo parlare non si tratta esattamente di bilinguismo. Inoltre Luce viene educata tardi, come spesso capita ai bambini con pluridisabilità, ai quali viene innanzitutto riconosciuto il diritto di rimanere in vita attraverso un’assistenza sanitaria impeccabile ma non quello a comunicare, poiché prima delle strategie per educarli a comunicare vi sono altre urgenze cliniche a cui far fronte.
Un altro aspetto è quello, noto a noi solo da alcuni decenni, del trilinguismo, ovvero della presenza di più lingue all’interno del nucleo familiare dove una persona sorda può trovarsi. E’ un aspetto con il quale gli operatori si trovano spesso a che fare: la lingua di uno dei genitori (come la mamma di Luce, che noi abbiamo voluto trascrivere in tutte le sue difficoltà linguistiche proprio per far comprendere quale possa essere il livello di difficoltà nella comunicazione di questo tipo) non è quella che si parla a scuola, entrambe non udite o udite con difficoltà.
Il messaggio che abbiamo voluto dare però è proprio quello di un arricchimento: la lingua dei segni, come qualsiasi altra lingua, non come una barriera insormontabile ma come una libera scelta e un arricchimento.

Mettere e metterci al centro come persone (e non come prestatori di servizi e utenti) che si relazionano tra di loro è secondo noi un punto fondamentale del lavoro sociale ed educativo, quali sono secondo voi le urgenze da affrontare come Comunità sul tema delle diversità?
Questo è un argomento che Nasoapunta affronta più volte nella sua “versione dei fatti”: come fare per far capire determinate cose? Come fare per far entrare in maniera capillare il concetto di integrazione? Che cosa ci rende forti di fronte all’ottusità del senso comune?
Andreina non ha formule magiche, il suo è un flusso di pensieri interiore come quello di Luce, mediato dall’essere donna in una società difficile ed essere professionista in un ambito che lo è ancora di più. Una cosa però importante la dice: l’unico strumento che si ha nei confronti dell’ignoranza è non avere paura di formarsi, di sapere il più possibile e di comportarsi come veri professionisti. Basta con il senso di inferiorità e con quell’aura di volontariato, basta con il missionarismo che induce a bruciarsi di fronte alla prima difficoltà, basta con le scuole new-age che inducono a pensare che tutto sia riducibile alle energie infuse da qualche millantata spiritualità.
Anche Luce, dal suo piccolo punto di vista arriva alle stesse conclusioni: per quale motivo non c’è un equilibrio tra chi fa questa professione, perché si oscilla tra l’entusiasmo e lo scoramento, tra il credere di salvare il mondo e il preferire di aprire una tavola calda in qualche posto sperduto? Quando gli operatori cominceranno a comportarsi come veri professionisti, allora si potrà cominciare a lavorare sulla coscienza collettiva e sull’educazione come bene comune, cercando di abbattere pregiudizi e ottusità.
Il più grande pregiudizio nei confronti della diversità, di qualsiasi tipo essa sia, è quello legato al fatto di poterlo e doverlo controllare: là dove non riusciamo a “normalizzare”, a renderla compatibile con i nostri standard, si cerca di relegarla ad altri ambiti, o, ancora più ipocritamente, di creargli un contenitore linguistico che la renda più accettabile (Luce dice
” odio quando mi chiamano diversamente abile, a me piace chiamare le cose per nome: io sono disabile”). Solo quando riusciremo a considerare la diversità con la naturalezza che le si addice, potremo realmente parlare di inclusione.

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