OPERAI DEL SOCIALE: l’esperienza di Daniele, educatore di strada

11 ottobre 2016 - operai del sociale

    Il Progetto Giovani nacque nel 2008 e venne attuato operativamente dal 2010 fino ai primi mesi del 2015 a Canale d’Alba. Lavorai come educatore di strada con gli adolescenti ed in rete con la maggior parte delle agenzie educative del territorio. Questo progetto infatti ambiva non soltanto ad educare portando gli adolescenti verso un’adultità sociale, capace di responsabilità e dedizione verso gli altri. Esso fu un progetto di comunità, che mirava a fondare nuovi patti sociali, culturali ed educativi. Rimettendo in discussione il sistema della “delega educativa”, esso ridefiniva gli assetti della legittimazione riguardanti tale funzione. Il cambiamento auspicato non poteva che partire degli adulti. Molte furono le energie e le passioni che attraversarono le persone coinvolte in questo ambizioso e richiedente progetto. Nell’approcciarmi ai ragazzi sperimentai sulla mia pelle la fatica rappresentata dall’incontro con l’alterità, ma anche (soprattutto) la fatica nel comunicare con le istituzioni. Gli amministratori, lontani dall’aver coscienza dell’importanza di attuare progettualità a lungo termine, ostacolarono il processo di cambiamento e rinnovamento delle prassi volte a fare comunità. Ostaggi del giudizio superficiale della cittadinanza sempre più richiedente e allo stesso tempo sempre meno partecipante, essi furono i primi a fallire (o rinunciare a priori) ad intraprendere il salto di qualità verso una maggiore civilizzazione, cavalcando un’idea di politica misera e clientelare.

    Anche il mio ruolo però si stava istituzionalizzando. Ricordo chiaramente lo smarrimento iniziale che provai nel capire per chi stessi lavorando. Stavo lavorando per una cooperativa sociale? Stavo lavorando per il comune di Canale d’Alba? Stavo lavorando per i ragazzi destinatari del progetto educativo? Stavo lavorando per tutti i cittadini canalesi o per la società in generale in quanto il danaro con cui ero pagato era pubblico? Il chiedermi “chi era il mio datore di lavoro” con il conseguente senso di smarrimento, fu il primo indicatore dello scollamento tra tutte le persone (fisiche o giuridiche) coinvolte nel medesimo processo educativo. Il desiderio di “servire bene coloro per cui lavoravo” con gli strumenti a mia disposizione, si declinò in un districarmi funambolico e sempre precario tra i bisogni e le richieste che tutte queste parti avanzavano rispetto al mio operato. Questo districarmi funambolico e le spossanti fatiche correlate (che sottraevano risorse preziose all’opera educativa con gli adolescenti), furono altri indicatori del fatto che le istanze presentate da questi enti erano non soltanto diverse, ma in molti casi in conflitto tra loro. Ad esempio esigere dati quantitativi del processo educativo e sollecitare una programmazione funzionale ad aumentare la visibilità del gruppo politico in carica fu incompatibile con la lentezza dei processi educativi, con la “silenziosa” e a volte poco misurabile costruzione di cammini di senso per i soggetti in formazione e per la comunità.

    Le ambizioni e la lunga gittata del Progetto Giovani Canale furono incompatibili con le richieste avanzate in modo esplicito dall’ente finanziatore (gruppo politico di maggioranza del comune di Canale d’Alba) e incompatibili con il percepito bisogno di controllo sociale, “prevenzione” ed intrattenimento manifestato dai cittadini e dalla società in generale. Tale incompatibilità sarebbe stata risolta soltanto facendo una massiccia opera di formazione popolare, oppure scendendo a compromessi sui fini dell’educazione. La prima ipotesi non si concretizzò pienamente e quando, dopo cinque anni di lavoro, fummo vicini alla realizzazione della formazione popolare il progetto non venne rifinanziato. La seconda opzione non venne per fortuna attuata poiché avrebbe snaturato lo stile fondativo dello stesso progetto trasformandolo in un non-senso poiché scaricato di ogni potenziale capace di generare reale cambiamento.

    Il preponderante stato di frustrazione legato al disconoscimento della mia figura professionale, al precariato e alla disarmonia tra le figure coinvolte nel processo educativo ebbe innegabili ripercussioni sulle relazioni educative con i gli adolescenti. Come far coesistere un’educazione per adolescenti, che immancabilmente prevede la promozione di senso critico (anche verso il potere), con il bisogno di buona visibilità di cui si nutre quello stesso potere che è l’erogatore del danaro che permette l’esistenza di quei percorsi educativi? Questo intricato quesito potrebbe essere declinazione pratica e sinonimo di un quesito più generale: come fare coesistere alti fini educativi che mettono al centro la persona, con le richieste dei poteri autocentrati e autoreferenziali (pubblici o privati) che istituzionalizzando l’educazione ne vantano pretese di controllo e indirizzo strumentale? Queste suggestioni a cui non è così semplice dare una risposta, ci obbligano a pensare -e ripensare – i presupposti dell’educazione.

Come operatore mi chiesi (e mi chiedo tutt’ora) come si potesse continuare a focalizzare l’attenzione sulle tecniche, sugli strumenti e sulle risorse (sempre più -criminosamente- scarse), senza mai mettere in discussione i presupposti, gli orizzonti e gli opprimenti stili politici, culturali ed economici che la società (noi) abbiamo creato e legittimiamo quotidianamente anche attraverso un acritico silenzio.

Dopo la chiusura del progetto cosa rimase? Rimasero le relazioni, ovviamente quelle significative e moltissime riflessioni, alcune delle quali sono appena state condivise. Al di là delle parole, esistono i fatti e prima ancora, soprattutto i sentimenti difficilmente codificabili attraverso la parola.

Rispetto all’efficacia del progetto ritengo non sia possibile attribuire una relazione diretta ed univoca tra i tangibili segni della vita pro-sociale di alcuni giovani adulti su cui ricadde l’azione pedagogica e culturale del progetto. Senza dubbio si può parlare di correlazione esistente tra l’opera educativa realizza ed il modello fatto proprio da alcuni/e adolescenti, ora giovani adulti. Per via della militanza educativa (stile e metodologia), la chiusura del Progetto Giovani non mise a repentaglio ciò che di autentico fu costruito. Infatti, ancora oggi alcuni ragazzi/e mi scrivono, mi chiamano e mi fermano in strada per parlare, confrontarsi o semplicemente per fare due tiri a pallone. Con altri il rapporto è ancora più ricco e gli scambi frequenti. Quando incontro i ragazzi provo nostalgia e molti ricordi riaffiorano reciprocamente alla memoria. A distanza di tempo, la rielaborazione condivisa delle piccole e grandi esperienze vissute mi dà modo di continuare un percorso coerente e ricco di significati. Più in generale mi dà modo di riconfermare la verità del Progetto Giovani, la validità degli assunti su cui venne fondato e l’efficacia delle metodologie che adottò per generare l’opera educativa. Questa lettura, in cui si condensano cinque anni di passioni e sofferenze, è soltanto negativa in apparenza. Essa fu una grande opportunità di crescita per me, per molti degli adolescenti con cui condivisi un piccolo pezzo di cammino, e per molti adulti che decisero di mettersi in gioco seriamente, malgrado tutto. Rimangono le grandi suggestioni evocate, stimolo per la ricerca e la fondazione di nuovi percorsi alternativi a quelli esistenti, sfide per coloro che decideranno di mantenere integra la propria dignità nel lavoro e nel proprio agire sociale….. e non è poco.

Daniele Chiesa