OPERAI DEL SOCIALE: BAMBINI CON DISABILITA’ E TABU’, a cura di Nemo
26 gennaio 2016 - operai del sociale
Breve riflessione sulla comunicazione tra educatore e famiglia
Spesso, come educatori impegnati sul territorio con interventi extrascolastici, ci troviamo a far fronte, in fase di osservazione e progettazione, al problema, molto più comune di quanto non si creda, di una percezione delle difficoltà del bambino da parte delle famiglie molto diversa da quella che percepiamo noi.
Nel raccontare i problemi del figlio, la parola “disabilità” e molte parole connesse hanno un peso tale che alcune volte diventano tabù, un elemento di sottofondo di cui non si può parlare. Si creano così piccoli e grandi cortocircuiti.
Ci viene richiesto dalla professione di prendere una posizione sui diversi aspetti della vita della persona con disabilità. La nostra professione è progettuale e prescrittiva, dobbiamo quindi interpretare la realtà e dare significato ad ogni singolo aspetto del problema educativo che affrontiamo. Chiamare le difficoltà con eufemismi, con parole imprecise o con nomi di fantasia (!!!) è un disturbo alla nostra attività e alla chiarezza del nostro intervento, che si ripercuote su tutti gli attori della rete d’aiuto di cui facciamo parte.
L’atteggiamento più comune ai non addetti ai lavori, nella valutazione del tempo educativo extrascolastico dedicato ai giovanissimi con disabilità, nel senso comune, purtroppo, diventa o “aiuto nei compiti scolastici” oppure il “va bene tutto, basta che sia qualcosa”, questa è la lingua comune!
Questa risposta sociale grossolana alla necessità di aiuto delle famiglie con un bambino con disabilità, è ciò che tutti gli educatori dovrebbero almeno provare a contrastare, perché è costantemente presente nei paradigmi culturali del nostro territorio. Il nostro lavoro di progettazione richiede un pensiero molto particolareggiato, che ha anch’esso la sua dimensione linguistica. Se non partecipiamo questo linguaggio o non esplicitiamo almeno (senza tecnicismi inutili) cosa facciamo e perché, cadiamo noi nel tabù questa volta all’inverso, magari lo facciamo perché sottovalutiamo la capacità di comprensione dei nostri interlocutori.
Dobbiamo invece sforzarci di portare avanti una cultura dell’educazione che sia “parlata”, spiegata, chiarita e resa comprensibile da parte delle famiglie che non necessariamente parlano il “pedagogese”. In questa facilitazione però non dobbiamo ridurre la complessità di ciò che facciamo. Questa è una nostra responsabilità: oggi più che mai l’anarchia impera nel mondo educativo, i laureati di qualsiasi disciplina gestiscono delicate questioni educative, assistiamo all’aumento del pressapochismo delle amministrazioni che pensano di risolvere con figure volontarie scarsamente formate alcune necessità sociali che hanno bisogno di professionalità ben definite.
Per far questo la nostra attività può essere anche una guida tecnica per le famiglie che non sempre riconoscono quella specifica disabilità come un aspetto che appartiene alla persona, ma la “evitano”, pur confrondandocisi ogni giorno.
In alcuni casi fatichiamo, noi tecnici, a usare il nome della patologia e quando lo facciamo abbiamo timori che questo provochi reazioni difficili da gestire. Tuttavia è necessario che teniamo a mente che non dovrebbero esistere tabù, venirci incontro col genitore per parlargli chiaramente. Accettando di parlare per sottintesi, accettiamo e promuoviamo quella cultura anti-educativa del silenzio, che, a cascata, porta ai diritti non esercitati, alla cultura del “va bene tutto, purché sia qualcosa”. Dobbiamo invece accompagnare i fruitori dei nostri servizi alla scoperta di quello che gli offriamo noi educatori, raccontando nel dettaglio ai familiari i processi che attiviamo, le nostre intenzioni, e come intendiamo realizzarle. Parlare ci può anche salvare da grandi cantonate, se nel dialogo sappiamo ascoltare senza pregiudizi.
Dobbiamo imparare quindi anche a rimuovere questi “non detti” che ostacolano la riuscita degli obiettivi del nostro progetto, ma questo non è affatto finalizzato a stravolgere convinzioni delle persone con cui ci confrontiamo, o “insegnargli”, in senso stretto, qualcosa. Dovremmo smettere per primi di rimuovere le parole importanti, come ci può capitare di fare, magari per infondere fiducia, adombrando noi il problema e avere l’impressione, momentanea e pericolosa, che stiamo riuscendo a “vendergli delle soluzioni”.
Siamo chiamati invece a trovare il minimo comune multiplo tra quel pensiero educativo genitoriale e il nostro pensiero educativo professionale che sono profondamente diversi per natura, ma possono funzionare sinergicamente soltanto se comunicano (l’onestà intellettuale, in questo senso è un DOVERE per gli educatori). Questo minimo comune multiplo parte dal linguaggio che decidiamo di condividere.
La parola chiave di questa breve, estemporanea, non sistematica e incompleta riflessione è: comunicazione.
L’educatore, oltre alla propria opera, dovrà cercare di mettere a disposizione il suo sapere tecnico al servizio del progetto educativo genitoriale, che potrà essere, in questo modo, maggiormente tutelato e potenziato.
Nel mio piccolo ancora sto imparando questa pratica complicata di rompere i tabù che disturbano la comunicazione, per mettere a disposizione la parte più tecnica della mia formazione ed esperienza professionale, perché le famiglie possano farne… più o meno quel che vogliono! Quando mi capita di riuscirci (anche solo in parte) credo sia un bel successo che va al di là dei nostri progetti educativi parziali, settoriali e soprattutto a tempo determinato.
Nemo Villeggia
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